Come si configura, oggi, il rapporto tra il mondo del lavoro e le persone che hanno subito una grave lesione cerebrale acquisita? Sono ancora molto diffusi i preconcetti o si sta andando verso una “normalizzazione” dell’inserimento lavorativo dei pazienti?
Temi di grande attualità, affrontati in un corso di formazione alla Rocca di Altavilla Vicentina, rivolto principalmente alle neuropsicologhe di Brain, ma aperto pure a giovani esterne che stanno iniziando il loro cammino in questo settore e sostenuto anche dai fondi Otto per Mille della Chiesa Valdese nell’ambito del progetto “Disabilità e Invecchiamento: supporto ai servizi domiciliari”.
A condurre le riflessioni i neuropsicologi e psicoterapeuti Massimo Prior e Alec Vestri.
“Questi incontri – spiega il dott. Prior – vogliono essere pillole di approfondimento, semi da far gemmare, spunti ben solidi provenienti dalla letteratura scientifica, su come comportarsi per il bene delle persone che hanno subito un grave trauma cranico. Nello specifico, parliamo di inserimento lavorativo, che deve innanzitutto partire dall’analisi delle condizioni di partenza del paziente. Questo perché il mondo del lavoro difficilmente è in grado o accetta di modificarsi in base alle caratteristiche delle persone. Le PMI difficilmente riescono a scendere a patti con le regole del mondo del lavoro (e a volte è anche impossibile), motivo per cui esistono le cooperative di tipo B. Il mondo del lavoro, inoltre, è in continua trasformazione: le mansioni semplici e ripetitive vanno scomparendo a favore di una sempre maggiore robotizzazione dei processi lavorativi. Bisogna quindi ripensare i modelli di impiego delle persone traumatizzate, perché la riabilitazione dà sicuramente risultati positivi, ma occorre poi capire come questi progressi possano integrarsi con sistemi lavorativi che diventano con il tempo sempre più complessi”.
La soluzione? Secondo il dott. Prior è fondamentale lavorare in team: “Clinici, esperti del mondo del lavoro, educatori, psicologi, fisioterapisti, terapisti occupazionali, tutte queste figure devono unire le loro forze e le loro competenze verso un fine ultimo e condiviso, ossia che il paziente deve diventare innanzitutto un cittadino, con diritti pari e doveri pari a quelli di tutti gli altri. È proprio in virtù di questa necessaria convergenza che sono contrario a qualsiasi ipotesi di separazione tra il mondo sanitario e il mondo sociale”.
Ma allora, come ci si deve rapportare con le aziende? “Contrattando, perché si deve ribaltare la visione secondo la quale l’assunzione di una persona con disabilità sia unicamente un dovere imposto dalla legge 68. In realtà essa è un vantaggio e lo è per tutti. L’obiettivo che ci dobbiamo porre è che la presenza in azienda di una persona con trauma cranico sia un fatto del tutto normale. Il ribaltamento della prospettiva va visto anche in questa direzione: all’interno dell’azienda la persona con trauma cranico non deve dimostrare all’azienda stessa di saper fare qualcosa. Piuttosto, se non sa svolgere una mansione, si metta la persona anche nella condizione di dimostrare che può non essere in grado di eseguirla, dopo una serie di mirati e concordati progetti con il team e l’azienda. Insomma, occorre mettere al centro il rispetto della dignità umana, perché chi ha subito un grave trauma cranico è un lavoratore tanto quanto tutti gli altri”.